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TAR Lazio, sez. I, sent., 21 marzo 2022, n. 3209

TAR Lazio, sez. I, sent., 21 marzo 2022, n. 3209

Presidente Arzillo – Estensore Scarpato

Fatto

Il ricorrente espone:

– di essersi chiamato-omissis-dalla nascita sino al 2005, allorché è stato adottato dalla-omissis-, con la conseguente modifica del cognome in “-omissis-”, e, poi, nel 2008, dal marito di quest’ultima, sig. –omissisomissis-”;

– di aver contratto matrimonio con –omissis– e che dall’unione è nata una figlia, che ha assunto il cognome “-omissisomissis-”;

– di aver ottenuto una sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio (sentenza del Tribunale di Roma del 12.4.2017 n. 7365) ed una pronuncia di nullità del vincolo da parte dei Tribunali ecclesiastici;

– di aver presentato una prima istanza alla Prefettura di Roma in data 1.4.2010, chiedendo di modificare l’ordine del cognome in “-omissis-”, omettendo, per brevità, “-omissis-”;

– di aver formulato una seconda istanza di cambiamento del cognome al Prefetto di Roma, chiedendo che l’ordine del cognome “-omissisomissis-” fosse modificato in “-omissis– –omissisomissis-”, per ragioni di notorietà nell’ambito della comunità scientifica, ove era attivo quale fisico;

– di aver ottenuto l’autorizzazione richiesta con il provvedimento del 2.10.2017 n. 336171/17/Area II ter della Prefettura di Roma;

– che in data 8 aprile 2019, la ex moglie, venuta a conoscenza dell’avvenuto cambiamento del cognome dell’ex marito e dei conseguenti effetti sul cognome della figlia minorenne, aveva rappresentato alla Prefettura di non aver mai prestato il prescritto consenso, diffidando l’Amministrazione “alla riconduzione allo status quo ante del cognome della sola minore –omissisomissis– –omissisomissis-, ripristinando il suo cognome alla nascita, –omissisomissis-”;

– di essersi visto conseguentemente recapitare il provvedimento di annullamento d’ufficio in questa sede impugnato.

Avverso il provvedimento impugnato il ricorrente deduce:

  1. Violazione dell’art. 21-nonies, comma 2-bis, della l. 7.8.1990 n. 241;
  2. Eccesso di potere e/o incompetenza;
  3. Illegittimità del provvedimento impugnato per la lesione dell’interesse alla stabilità del decreto annullato e per difetto del presupposto del dolo del richiedente;
  4. Illegittimità del provvedimento impugnato per l’illegittimità degli atti presupposti;
  5. Nullità o, comunque, illegittimità del decreto impugnato per indeterminatezza.

Il ricorrente lamenta che il provvedimento impugnato è stato emesso circa 3 anni e 6 mesi dopo il l’autorizzazione al cambio del cognome, ben oltre il termine di diciotto mesi stabilito dall’art. 21 nonies comma 2 bis della Legge nr. 241/1990, violando il legittimo affidamento del destinatario ed evidenziando che nessuna sentenza passata in giudicato aveva accertato condotte costituenti reato a carico dell’esponente o di terzi, anche in considerazione del fatto che il fascicolo aperto dalla Procura della Repubblica si era concluso con un decreto di archiviazione.

Inoltre, il ricorrente deduce di non aver posto in essere alcuna dichiarazione mendace, in quanto, all’atto della domanda, era già intervenuto il divorzio dall’ex moglie, avendo egli correttamente rappresentato la composizione del nucleo familiare, che non comprendeva la figlia minore perché collocata presso l’abitazione della madre.

Il ricorrente evidenzia, peraltro, che a fondamento del provvedimento impugnato non sussistevano ragioni di interesse pubblico, contestando che la propria condotta aveva impedito all’amministrazione di effettuare il corretto bilanciamento tra l’interesse dell’esponente e quello della figlia minore, rappresentata dalla madre divorziata.

Sul punto, la difesa del ricorrente evidenzia che il diritto al nome è un diritto della personalità, da collocare in una dimensione eminentemente privatistica, con la conseguenza che l’interesse al cambio del cognome del ricorrente doveva ritenersi prevalente rispetto a quello alla stabilità del cognome medesimo portato dalla figlia minore, senza alcuna possibilità per il Prefetto di effettuare un bilanciamento tra i due interessi, privilegiando quello della figlia per il tramite del provvedimento di annullamento in questa sede impugnato.

Si è costituita la controinteressata –omissis-, deducendo che la richiesta di cambiamento di cognome del ricorrente, oggetto del presente giudizio, è stata corredata da autodichiarazioni non veritiere, rese ai sensi del DPR 445/00, avendo l’istante taciuto di avere una figlia minore e non avendo questi dichiarato di aver contratto matrimonio (i cui effetti civili erano cessati qualche giorno prima del deposito dell’istanza), corredando la richiesta con una carta d’identità risalente al 2009 (precedente cioè sia al matrimonio che alla nascita della figlia), in cui risultava di “stato libero”.

Tanto premesso la controinteressata evidenza che la figlia minore è conosciuta a scuola e dalle amiche come –omissis-, mentre l’iniziativa del padre le imporrebbe improvvidamente e con intuibili disagi di divenire –omissisomissis-, in quanto il cambiamento di cognome del ricorrente si riverbera direttamente sulla figlia minore, senza che ella fosse stata interpellata, per il tramite dell’altro genitore esercente la potestà.

In punto di fatto, la controinteressata espone di essere venuta a conoscenza del cambio di cognome dell’ex marito (e dunque della figlia) ad esito di una richiesta di quest’ultimo rivolta al Ministero degli Affari Esteri, e volta a modificare il cognome della figlia sul passaporto diplomatico. A questo punto, la controinteressata ha controllato i registri anagrafici del Comune di Roma ed ha avuto così modo di appurare che la figlia aveva subito un cambio di cognome, diffidando la Prefettura a ricondurre la situazione allo status quo ante ed interessando della vicenda l’Autorità Giudiziaria Penale.

Alla luce di tali deduzioni, la controinteressata ha contestato puntualmente i motivi di censura posti a fondamento del ricorso, evidenziando che le pretese del ricorrente dovevano in ogni caso ritenersi subordinate rispetto al superiore interesse della minore, ritenuto ex lege preminente.

Si è costituita la Prefettura di Roma, che con articolata memoria difensiva si è opposta al ricorso chiedendone la reiezione.

All’udienza del 08.03.2022 il ricorso è stato introitato per la decisione.

Diritto

Il ricorso è infondato e va respinto.

Emerge dagli atti di causa che, a corredo dell’istanza presentata in data 20 aprile 2017 per ottenere il cambio del cognome, il ricorrente ha presentato una dichiarazione sostitutiva di certificazione ai sensi del d.P.R. n. 445/2000, riportante la composizione del proprio nucleo familiare ed il certificato di stato di famiglia, dichiarando di rientrare nel nucleo familiare della madre, con la quale risultava essere convivente e senza alcun riferimento alla presenza di figli minori, ovvero di pregressi rapporti di coniugio.

La Prefettura ha quindi svolto la fase istruttoria sulla base degli incompleti elementi forniti dall’istante e, in accoglimento dell’istanza, ha emanato il Decreto Prefettizio prot. n. 33617/1, con il quale il Sig. –omissisomissisomissis– è stato autorizzato a modificare il proprio cognome in “-omissis– –omissisomissis-”.

Solo la successiva istanza dell’odierna controinteressata (intervenuta in data 8 aprile 2019) ha fatto emergere l’incompleta rappresentazione dei fatti posta in essere in sede di istanza, lamentandosi la ex moglie di non aver potuto prestare il necessario consenso al cambio del cognome del ricorrente, che aveva avuto effetti diretti sul cognome della figlia.

Alla luce di tale chiaro quadro fattuale, deve ritenersi legittimo l’intervento in autotutela posto in essere dall’Amministrazione con il provvedimento in questa sede impugnato.

Il ricorrente ha fornito un’inesatta e non veritiera rappresentazione della realtà, presentando un’istanza dalla quale emergeva il suo stato “libero”, nonché un nucleo familiare costituito esclusivamente dal medesimo e dalla di lui madre, senza effettuare alcun riferimento alla presenza di una figlia minore – pesantemente coinvolta dalla scelta del cambio del cognome – ed all’esistenza di un altro genitore, esercente la responsabilità sulla medesima.

In disparte la possibilità di scindere le vicende modificative del cognome dell’istante da quelle del soggetto che da questi deriva il cognome, che pure è contemplata dalla normativa di settore (in particolare dal DPR 396/2000), quel che nel caso di specie rileva è l’emanazione di un provvedimento insanabilmente viziato da gravi reticenze informative da parte dell’istante; quest’ultimo, mediante una non veritiera rappresentazione della realtà, ha impedito all’altro genitore di esercitare la relativa potestà ed alla Prefettura di poter disporre di tutti gli elementi necessari ad effettuare una compiuta valutazione sull’istanza di cambiamento del cognome.

Quest’ultima, è appena il caso di precisarlo, importa una valutazione eminentemente discrezionale, implicante il bilanciamento del diritto dell’interessato con il pubblico interesse alla stabilità ed alla certezza degli elementi identificativi della persona e del suo status giuridico e sociale.

Ne consegue che nel caso di specie legittimamente l’Amministrazione ha agito in autotutela annullando il provvedimento impugnato, viziato da evidenti profili di illegittimità per difetto di istruttoria imputabile all’istante.

Sul punto, deve rilevarsi che i casi normativi definiti d’autotutela doverosa, tra cui quello della decadenza ex tunc del beneficio quale conseguenza del generale principio contenuto nell’art. 75 d.P.R. n. 445/2000 (in base al quale, ove emerga la non veridicità del contenuto della dichiarazione secondo una valutazione autonoma della p.A., il dichiarante decade dai benefici conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera), non sono affatto “eccezioni” alla regola “generale” ex art. 21-novies della l. 241/1990, ma costituiscono forme ben definite d’autotutela doverosa poste a garanzia di supremi valori ed interessi dell’ordinamento contro la consolidazione degli effetti d’un atto illegittimo ed ingiusto e non tempestivamente revocato o annullato, tant’è che l’art. 21-nonies, comma 2-bis, recato dalla novella ex art. 6, comma 1, lett. d), n. 2) della l. 7 agosto 2015n. 124, ha fatto salve, tra le altre, le sanzioni previste dal capo VI del d.P.R. n. 445/2000, tra cui, appunto, quelle dettate dall’art. 75; ne consegue che sussiste in capo alla p.A. l’obbligo di provvedere a fronte di un’istanza di un terzo diretta all’applicazione del citato art. 75 d.P.R. n. 445/2000 (Consiglio di Stato sez. VI, 31/12/2019, n.8920).

Anche in relazione alla corretta interpretazione da fornire all’art. 21 nonies, l. 7 agosto 1990, n. 241, la giurisprudenza ha chiarito ripetutamente che la norma si interpreta nel senso che il superamento del rigido termine di diciotto mesi — entro il quale il provvedimento amministrativo illegittimo può essere annullato d’ufficio, sussistendone le ragioni di interesse pubblico, è consentito: a) sia nel caso in cui la falsa attestazione, inerenti i presupposti per il rilascio del provvedimento ampliativo, abbia costituito il frutto di una condotta di falsificazione penalmente rilevante (indipendentemente dal fatto che siano state all’uopo rese dichiarazioni sostitutive): nel qual caso sarà necessario l’accertamento definitivo in sede penale; b) sia nel caso in cui l'(acclarata) erroneità dei ridetti presupposti risulti comunque non imputabile (neanche a titolo di colpa concorrente) all’Amministrazione, ed imputabile, per contro, esclusivamente al dolo (equiparabile, per solito, alla colpa grave e corrispondente, nella specie, alla mala fede oggettiva) della parte: nel qual caso — non essendo parimenti ragionevole pretendere dalla incolpevole Amministrazione il rispetto di una stringente tempistica nella gestione della iniziativa rimotiva — si dovrà esclusivamente far capo al canone di ragionevolezza per apprezzare e gestire la confliggente correlazione tra gli opposti interessi in gioco (ex multis, Consiglio di Stato sez. V, 27/06/2018, n.3940).

Alla luce dei sopra indicati elementi fattuali e del consolidato quadro giurisprudenziale in materia, è agevole concludere che l’archiviazione del procedimento penale nei confronti del ricorrente non implica affatto un divieto di superamento del termine previsto dall’art. 21 nonies per l’esercizio del potere di autotutela, avendo il ricorrente ottenuto il provvedimento caducato dall’atto di riesame mediante dichiarazione sostitutiva che ha fornito una non veritiera rappresentazione della realtà.

Fatte queste necessarie premesse e chiarito che l’Amministrazione aveva l’obbligo di intervenire in autotutela, deve pure rilevarsi l’inconsistenza delle censure relative all’ assenza di ragioni di interesse pubblico a fondamento del provvedimento impugnato, dovendo – nella prospettiva del ricorrente – l’interesse al cambio del cognome del richiedente prevalere su quello alla stabilità del cognome medesimo portato dalla figlia minore.

Sul punto è agevole rilevare che il ricorrente ha indicato il proprio interesse nel sentimento di particolare devozione alla memoria del padre, Prof. Avv. –omissisomissis-, illustre giurista, nonché nell’esigenza di “mantenere la continuità nella vita sociale e, particolarmente, nel proprio lavoro e carriera scientifici, attesa la sua affermazione nell’ambito professionale ed accademico”.

Ebbene, non vi è chi non veda come tale interesse – che è sicuramente meritevole di tutela – non esiste da solo, ma deve essere contemperato con l’interesse pubblico della certezza e continuità dello status nonché della continuità delle risultanze anagrafiche, oltre che con altro ancor più rilevante interesse privato, quello della figlia minore al mantenimento del proprio personalissimo diritto al nome ed alla continuità nella vita di relazione.

Tale contemperamento è stato nel caso di specie radicalmente precluso dal comportamento omissivo del ricorrente.

Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio e le liquida nella misura di € 1.000,00 in favore dell’Amministrazione resistente e di € 3.500,00 in favore della controinteressata, oltre accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente, la controinteressata, nonché la figlia minore.